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Orchestra di chitarre classiche dal 1978

Il mondo della chitarra


Galateo musicale di Paolo Isotta

1 - Vorrei sommessamente, e in ispecie dopo un giro estivo in vari Festivals, suggerire le minime regole di galateo per il mondo musicale. Quasi trent'anni di trottoir ("V'è la risorsa, poi, del mestiere", dice Figaro) mi autorizzano.
2 - Alla fine di ogni recita operistica è invalsa l'abitudine, come si dice in gergo, di "fare quadro". Il sipario si rialza su tutti gli interpreti dell'ultima scena, resuscitati gli eventuali morti. Poi, tutti, compresi gli assenti all'ultima scena, al secondo levarsi della tela si presentano uno alla volta, in ordine inverso rispetto all'importanza del ruolo. Le masse restano in fondo. Così tutti i cantanti applaudono, a uno a uno, l'orchestra ed il coro; e ne sono applauditi. Il direttore d'orchestra, di solito costretto alla gentil finzione d' esser trascinato, recalcitrante, dalla Prima Donna, applaude l'orchestra, il coro e i singoli cantanti. Regista, bozzettista, figurinista, con eventuali assistenti, datore luci (oggi definito "light designer" [...]), maestro del coro, ci sottopongono anch'essi all'estenuante messinscena. E' ridicolo oltre che falso, ben noti essendo i sentimenti reciproci da ciascuno nutriti. Gli applausi sono di pertinenza solo del pubblico. Men che meno il direttore applauda dal podio un cantante dopo una Romanza: appare ruffiano o autoincensatore, in quanto responsabile supremo. Peggio: non invii baci al pubblico, consentiti solo ai cantanti in circostanze eccezionali. E' tradizione che, rarissimamente, l'orchestra, invitata dal direttore ad alzarsi in piedi per condividere il successo, si rifiuti, con ciò rendendo omaggio al capo ed eventualmente battendo gli strumentisti d'arco questo sul leggìo. Proprio l'eccezionalità di siffatta manifestazione di rispetto deve impedire l'applauso orchestrale come inflazionata abitudine. Del pari, inversamente: se i sorrisi a sessantaquattro denti dei maestri concertatori fanno piangere, non è augurale taluna maschera facciale da "lutto strettissimo" (Martoglio) indossata a inizio di stagione e mai più deposta.
3 - Si ribadisce ad nauseam che il pubblico ha il diritto di dichiarare, anche col fischio, di non aver gradito la prestazione degli interpreti. Ma ha il dovere di rispettarli nello sforzo comunque terribile che essi compiono. Intonare, pronunciare, fraseggiare, respirare, deglutire, recitare, sotto i riflettori, spesso non riuscendo essi ad ascoltarsi a vicenda né ad ascoltare l' orchestra: situazione da acustica della Scala. I fischi durante la recita sono quanto di meno sportivo, di più sleale possa concepirsi: giacché, vogliano o non vogliano, hanno il risultato obiettivo d' in flui re sulla prestazione stessa, peggiorandone il risultato.
4 - Il buon direttore d'orchestra non consente che il cantante esegua bis, pur se sollecitato da "dolce violenza" da parte del pubblico. Gli specialisti in "dolce violenza" sono isterici o famigliari, in senso lato, dell'interprete stesso. Ma il buon direttore deve "sentire" la sala. Un capo-claque che si rispetti, e all'epoca di Berlioz anche la jeteuse de bouquets, deve conoscere la partitura quanto il direttore: è valido anche il reciproco. Non soffochi, il direttore, l'applauso spontaneamente sorto dopo la Cavatina dando rabbioso attacco all'orchestra per il collegamento colla Cabaletta: ma non resti imbambolato o servile ad attendere applausi dopo la Cavatina che in diversa circostanza non giungeranno.
5 - Il tema dell'abbigliamento e, più in generale, dell'aspetto esterno, ch'è un messaggio, degl'interpreti, in particolare dei direttori d'orchestra, basterebbe per un libro. Qui lo sfioriamo appena. Il senso dell' opportunità, che le nostre nonne chiamavano dell'à propos, della dignità (son maintien) essendosi del tutto perduto, non esistono più punti di riferimento obbiettivamente validi. A un'esecuzione della solennissima e funerea Messa in Fa minore di Bruckner ci toccò vedere le soliste di canto indossanti gonne con spacco fino all'inguine, trucco, con rispetto parlando, da travestiti di circonvallazione esterna; e da queste partiva un olezzo marzolino di deodorante ascellare che, invadendo la sala, induceva all'ammirazione per il celebre maestro a pochi centimetri eroicamente sul ponte di comando. Naturalmente del direttore cale assai di più. Un tempo, il frac era un abito di società; oggi dovrebb'esserlo ancora per rispetto alla musica e all'occasione festiva ("festa" ha un'etimologia religiosa, come tutti sanno) del concerto o della rappresentazione. Lo portano come un costume teatrale, da pagliaccio. [...] La rinuncia al frac per certi melancolici completi di "Tasmania" a tre quarti, o sette ottavi (nulla a che vedere col Valzer della Patetica, ch'è in cinque quarti), è rimedio peggiore del male.
I capelli siano l'ultimo punto dedicato ai direttori d'orchestra. Per molti di loro sono strumento professionale: ciò basta a qualificarli come Dulcamara. E' incredibile il numero di maestri che, della più varia origine sociale, si tagliano i capelli come i protagonisti dei serials americani, laccati e permanentati, o come gli armanizzati "coatti" dei ghetti-periferia. Con ciò ribadiscono il messaggio: "rappresento in luogo di essere". 

Liberamente tratto da Corriere della Sera, p. 31 (29 agosto 2001)